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How I met your father

Aggiornamento: 22 nov 2019

Tra le tante storie raccontate un pò di getto fino ad ora, ecco che ne arriva una più difficile. Perché non ci sono diari stavolta a supportarne la memoria, ma soprattutto perché non ha un inizio netto e men che meno una fine.

Ma ci provo lo stesso.


Questa è la storia di come ho conosciuto tuo padre.


Il giorno in cui ho conosciuto tuo padre, lo conoscevo già.

Ci eravamo già incontrati tante volte nei locali di Milano. Lui faceva parte del giro di amici di mio fratello - tuo zio - e in svariati eventi, serate, anche vacanze ci eravamo trovati allo stesso tavolo a condividere drink, chiacchiere e risate.

Aveva anche partecipato al farewell party che gli amici mi avevano organizzato prima della partenza per gli States, al quale avevano dovuto radunare più gente possibile per rientrare dei costi.


Oltre a questo, però, niente.


Il 23 marzo 2011, ci conoscemmo di nuovo.

Era il mio primo giorno in Italia dopo il grande viaggio oltreoceano, e contro ogni mia previsione mi ero trovata, sveglissima a causa del jet lag, alle due di una notte infrasettimanale con lo zio, la zia e qualche altro amico a brindare al mio ritorno in patria.

Tra questi amici, c’era anche lui.


A quei tempi F. frequentava l’ultimo anno di università. Era prossimo alla laurea e come ogni quasi laureato che si rispetti, quando non studiava per gli ultimi esami era a zonzo per la città, a fare festa quasi tutte le sere.

Si godeva quegli ultimi mesi di apparente nullafacenza, e anche per questo era sempre un po’ abbronzato, e quel colore dorato della pelle, insieme al colore dorato dei suoi capelli, furono le prime cose che mi rimasero testa di lui.


Anch’io ero abbronzata.

Piu che abbronzata, ero gravemente ustionata.

Due giorni prima avevo detto addio agli States addormentandomi accidentalmente in una romantica e introspettiva tarda mattinata sulla sabbia di South Beach, che si era trasformata in un primo pomeriggio, il cui sole cocente mi aveva svegliata dopo due ore, che senza nessuna protezione, erano bastate per trasformare il mio viso in una palla gonfia e dolorante. Più volte la hostess di British Airways, durante il lungo volo di ritorno, mi aveva offerto del ghiaccio impietosita per le pessime condizioni della mia pelle.


Ero così quella sera: il viso gonfio dal sole americano, i capelli schiariti da quasi sei mesi di estate sulla testa. Addosso avevo una felpa bucata e i jeans che avevo tirato fuori dallo zaino, e le mie Superga consumate perché non avevo avuto il tempo, la voglia e il coraggio di esplorare il mio vecchio armadio.

Ero candidamente fuori luogo, ma non potevo sentirmi più a mio agio di così.


Col passare delle ore, il volume delle chiacchiere era aumentato e con esso anche la frequenza tra un cocktail e l’altro, che erano poi diventati chupiti, che si erano poi trasformati in un entusiasta “andiamo a ballare!!”

Io, che fino a poco tempo prima mi immaginavo la prima serata a Milano nella tranquillità di casa, intenta a svuotare la mia valigia e a mettere ordine tra i diari, come già detto non vestita nè truccata come si dovrebbe per una serata danzante milanese ma ormai positiva verso ogni novità avevo accettato la proposta e avevo seguito tuo zio e gli altri verso l’Old Fashion, una di quelle grandi e affollate discoteche di Milano dove ora che scrivo non metterei mai più piede.

E invece.


A quanto pare, a mia insaputa, già da prima che partissi per gli States, quando mi aggiravo un po’ più frequentemente nelle serate a cui partecipava anche tuo papà, lui aveva iniziato a esprimere un vago interesse nei miei confronti.

Non si trattava di ossessione nè di amore a prima vista: semplicemente mi aveva notata e aveva espresso un superficiale apprezzamento per me.

Quel 23 marzo 2011, ormai 24 data l’ora, mentre salivo in macchina diretta all’Old Fashion e lui si apprestava ad andare a casa, dato che il giorno dopo avrebbe avuto lezione, M. aveva colto al balzo il ricordo di questo suo apprezzamento e l’aveva esortato a seguirci a ballare, perchè, testuali parole: “Devi venire, c’è anche la V.!”


Io davvero non so se M. pensasse che tra noi sarebbe potuto succedere qualcosa quella sera, o avesse sfruttato la novità della mia presenza come scusa per convincere F. a partecipare alla serata. Conoscendola, e conoscendo l’enfasi con cui ha sempre organizzato uscite e feste cercando di far partecipare più persone possibili, la seconda opzione è la più credibile.

F. in ogni caso l’ascoltò, e invece che tornare a casa venne all’Old Fashion anche lui.


Ora, a parte Las Vegas io non mettevo piede in una discoteca da molto tempo.

In quel turbine di facce, corpi, musica, luci e buio un milione di pensieri confusi mi giravano in testa in un miscuglio di inglese, italiano e vodka.

Avevo ancora quella tendenza a conoscere ogni sconosciuto che incontravo imparata in America, e che poco faceva parte della me di prima, sempre un pò riservata e timida.

Mi separai subito dal gruppo con cui ero arrivata e mi trovai in quel casino a chiacchierare con studenti in erasmus o a raccontare il mio viaggio a ragazzi che probabilmente mi avevano approcciata sperando di rimediare qualcosa di diverso.

In quel casino, una faccia abbronzata, un ciuffo di capelli color del miele, ecco che avevo incrociato lui.


Non so cosa scattò in me in quella discoteca, ma tutto d'un tratto lo vedevo con occhi nuovi: era diverso, era lontano da quello che ero io in quel momento, ma il suo sguardo nuovo aveva un'aria familiare e rassicurante.

L‘avevo visto già mille volte ma quella fu la prima volta che lo vidi davvero. Forse era la prima volta che lui davvero guardava me.

In un attimo sparì tutto quel turbine di persone e musica e luci e buio, e c’eravamo solo noi due: ci parlavamo, ci guardavamo negli occhi, ci conoscevamo e ci facevamo spazio l’uno nella testa dell’altra.


Era il secondo o terzo giorno di primavera del 2011, e senza previsioni, senza progetti, senza nessuna certezza su cosa sarebbe accaduto poi, in due momenti così di rottura delle nostre vite - io che tornavo in patria pronta a trovare la mia via, lui che si accingeva a laurearsi e a trovare la sua - ci prendemmo per mano e iniziammo a camminare insieme.

Senza dirlo troppo ad alta voce, viste le implicazioni familiari, la storia già da un pò di tempo nata tra mio fratello e sua sorella (i tuoi zii) passammo i mesi seguenti a stupirci l’un l’altra senza apparentemente prendere impegni troppo seri.

Io organizzavo il mio viaggio in India ma compravo un biglietto per raggiungerlo in Sardegna subito dopo.

Lui proseguiva nelle sue nottate universitarie danzanti ma poi mi faceva arrivare una gigantografia di noi su tela a casa. Mi portava con lui, fuori a divertirci e a ballare trascinandomi un po’ da quella mia tendenza a chiudermi in solitaria, io cercavo di restare fuori da quella movida superficiale ma poi in sella alla mia bici lo raggiungevo pedalando nella notte di Milano - oppure in sella a dei quad luminescenti e rumorosi che avevano dato un passaggio a me e alla mia amica Amanda una sera che stanche avevamo abbandonato la bici a un palo alle Colonne di San Lorenzo.


Passammo l’estate a stupirci, e a divertirci come pazzi.


Fino a quando fummo pronti, a settembre, a dirci che ci amavamo.


La storia è questa qua, sincera e senza fronzoli.

Forse non è la storia più romantica del mondo, a sentirla così.

Non c è sofferenza, addii struggenti, perdersi e ritrovarsi.

C’è un’attrazione calamitica, che si è manifestata quando due persone erano entrambe pronte a provarla.

Da quell’inizio di Primavera di otto anni fa, insieme abbiamo viaggiato per il mondo, insieme abbiamo vissuto in case, città, continenti diversi, insieme non abbiamo mai smesso di divertirci come la prima estate, abbiamo litigato furiosamente per poi insieme far pace un attimo dopo, siamo rimasti insieme senza mai lasciarci, e insieme abbiamo avuto te.


Queste, per me, e la storia più romantica che c’è.









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