Succede che quando si viaggia in India spesso si viaggia in coppia.
Certo si trovano gruppi più numerosi, io ad esempio mi ero imbattuta in una felice e rumorosa tavolata che esplorava l'India del nord con Avventure nel mondo, ma abitualmente, un viaggio così, è più facile farlo in due.
Ero anch'io parte di una coppia, completata dalla mia amica A.
E poi succede che si incontrano viaggiatori solitari, e quelli sono tanti, e ce n'è di due tipi.
Ci sono gli avventurieri zaino in spalla che girano il paese, magari come tappa di un viaggio ben più lungo, o forse per fare un'esperienza di volontariato oppure per fermarsi in un Ashram a cercare se stessi.
E poi ci sono dei viaggiatori solitari un pò più incerti.
Improvvisati.
Quasi rassegnati.
Sono i viaggiatori sani.
Si, perchè una cosa che non sapevo, prima di partire per l'India, è che non importa quanti vaccini tu faccia: ci sarà sempre un batterio, un virus, un piccolo bacillo nascosto chissà dove, magari in quell'ottimo samosa assaporato in quel baracchino a Varanasi o nel dolce e fumante chai bevuto a colazione nella Guest House di Delhi, pronto ad agire e a stenderti facendoti ripercorrere mentalmente tutti i sintomi della febbre tifoide e facendoti pensare al peggio.
E così, in una coppia, è possibile che arriverà il momento in cui uno dei due si ammalerà: avrà probabilmente una bella febbrona, forse del vomito o della dissenteria che lo bloccherà in camera e nel frattempo il compagno si trasformerà in un bel viaggiatore sano. Il sopravvissuto della coppia, il solitario viaggiatore improvvisato.
Ma andiamo con ordine.
A e io da Varanasi ci dirigemmo a ovest: una lunghissima corsa overnight in treno ci portò ad Agra, dove avevamo previsto di fermarci solo una giornata per visitare il celebre Taj Mahal, per poi proseguire verso il Rajasthan.
Arrivammo ad Agra, come previsto, all'alba. Lasciati gli zaini nella stanza della nostra Guest House, sapientemente prenotata nelle immediate vicinanze del Taj Mahal, e scampato l'attacco di una madre scimmia che per proteggere il suo piccolo dai nostri sguardi indiscreti mi ha letteralmente aggredita sul ballatoio dell'albergo, sconfitta grazie al provvidenziale ricordo dei camerieri balzanti e ringhianti sulla nostra terrazza di Varanasi (dopo aver visto i suoi denti affilati a una spanna da me, non ho più guardato le scimmie con gli stessi occhi), ci siamo quindi dirette a visitare il meraviglioso mausoleo di Agra.
Cosa dire, sul Taj Mahal.
La luce del mattino si riflette su quel marmo bianco tanto da restarne abbagliati, alla vista dei minareti che si stagliano contro il cielo. E il lungo specchio d'acqua sapientemente posizionato ai suoi piedi ne riproduce la perfetta immagine rendendolo come sospeso nell'aria. Un miraggio, nella foschia dell'afa estiva.
Eravamo stanche, A e io. La lunga notte in treno ci pesava sulle palpebre e dopo qualche ora, quando il caldo iniziò ad aumentare, decidemmo di tornare alla Guest House a schiacciare un pisolino prima di proseguire il viaggio quella stessa notte.
Io ero un pò più stanca di lei - forse era riuscita a dormire un pò di più, in treno.
Hai presente quando sei bambino, e ti vengono quelle febbri da cavallo, con incubi angoscianti che ti fanno svegliare in un bagno di sudore?
Ad Agra, dopo quel pisolino ristoratore nella Guest House appena fuori dalle mura del Taj Mahal, io mi svegliai così.
Allucinata, dolorante, e con 40 di febbre.
Ed ecco che A divenne una viaggiatrice solitaria.
Durò una settimana questa circostanza, in cui io mi affliggevo in un letto di sudore, rileggendo la sezione Salute della Lonely Planet per decidere quale malattia mortale mi avesse colpita, fissando le pale del ventilatore che dal soffitto mi dava un pò di sollievo, ascoltando lo scampanellio delle cerimonie che avvenivano in strada fuori dalla finestra, mangiando i manghi che A mi portava per darmi un pò di vitamine.
A nel frattempo visitò Agra, il Forte Rosso e i suoi dintorni in modo estremamente più approfondito di quello che ci eravamo prefissate, incontrando nel suo girovagare una quantità di solitari viaggiatori sani, i cui compagni erano bloccati in camera a sudare come me, e scoprendo che quella che ci era sembrata una terribile sfortuna, altro non era che un'altra tipica disavventura indiana.
Ci misi un pò a riprendermi dalla febbre, che mi lasciò debilitata fino alla fine del viaggio.
La settimana ad Agra rivoluzionò i nostri piani, e decidemmo quindi di dedicare i giorni rimasti a visitare Delhi, rinunciando al Rajasthan.
Con un comodo bus con aria condizionata raggiungemmo la capitale, che con i suoi grandi viali ci sembrava lussuosa e moderna, ci sembrava New York, ci sembrava Parigi, dopo tutta quell'India dell'est.
Spendemmo i nostri giorni lì a girovagare per gli sconfinati mercatini in cerca di cavigliere, spezie, profumi, ciondoli e sciarpe. Mangiavamo nei ristorantini sui tetti dei palazzi, che si raggiungevano attraverso scale strette e ripide e servivano birra nelle teiere, per evitare di pagare le licenze alcoliche. Guardavamo il caos della città in movimento, e gli aquiloni fatti volare dai bambini dalla sommità delle case: l'unico spazio aperto che avevano per giocare.
Respirammo per l'ultima volta l'aria indiana, quell'aria che per quell'intenso mese ci aveva prima soffocate, poi risvegliate, poi liberate, poi forse soffocate un'altra volta, e ora ci diceva addio, continuando a soffiare indifferente su un mondo che avevamo avuto la fortuna di osservare ma di cui non facevamo parte, da cui avevamo imparato qualcosa senza forse davvero capire nulla, che sarebbe rimasto indelebile dentro di noi senza che ci lasciassimo, di noi, nessuna traccia.
Ci aveva lasciate così, l'India: una viaggatrice dimagrita e un pò acciaccata, un'inaspettata viaggiatrice solitaria, due ragazze con un bindi rosso tra gli occhi e rumorose cavigliere ai piedi, due intestini che ci misero un buon mesetto a riprendersi completamente, e uno stupore negli occhi che ancora oggi, del tutto, non se n'è andato.
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