L’immenso fascino di Varanasi mi ha conquistata il secondo giorno in cui ero lì.
Il primo, ero arrabbiata.
Arrabbiata perché al contrario del suo promettente nome nella carrozza Sleeper non ero riuscita a chiudere occhio: la folla di passeggeri, il via vai dei venditori ambulanti e il trambusto del treno erano troppo per il mio sonno sempre disturbato, e oltre tutto una volta arrivate, all’alba, eravamo state accolte dal monsone che con un muro di pioggia aveva reso complicati e lenti tutti i nostri spostamenti. Ero arrabbiata perché avevamo finito le rupie e nessun cambio era aperto a quell’ora, e con i pochi spiccioli rimasti eravamo riuscite a incastrarci in un tuc tuc malmesso il cui guidatore aveva però messo in pratica la fastidiosa abitudina asiatica di portarci a indirizzi sbagliati per far sì che dormissimo in hotel diversi da quello che volevamo noi, in modo da prendersi una commissione. Eravamo finite davanti a un'orrida Guest House in una piccola piazza senza nessun punto di riferimento, senza più soldi per permetterci un'altra corsa, e ci eravamo dovute trascinare sotto il diluvio tra i vicoli della città che si svegliava bussando alle porte degli alberghi che incontravamo per chiedere una camera.
Sfinite e desiderose di un letto su cui buttarci a dormire, ci eravamo fermate dopo un’oretta in in Boutique Hotel decisamente al di sopra delle nostre possibilità, ma che ci aveva offerto una bella camera privata con un bagno in comune al di là del romantico cortile affacciato sul Gange, che mi ero trovata a dover attraversare correndo più e più volte, quella notte, per vomitare la zuppa o qualsiasi cosa avessi ingerito e che mi aveva fatto star male.
Ero arrabbiata. Il secondo giorno però arrivò luminoso. Alleggerite dagli zaini lasciati in camera e liberate per qualche ora dalla pioggia torrenziale, ci eravamo dirette alla ricerca della giusta Guest House in cui soggiornare perdendoci nel labirinto di strette strade e vicoli, meravigliate e felici, incredule, abbagliate, estasiate, allucinate. La rabbia era svanita e con lei la stanchezza e il malessere della notte.
Il sole aveva iniziato a splendere su Varanasi.
Era stato difficile l’approccio all’India, non l’avevo capita. L’estrema povertà che ne animava le caotiche città, l’inarrestabile rumore dei clacson, gli incidenti a cui avevo assistito nelle strade, le mucche e i cani scheletrici che rivelavano il loro malessere attraverso quelle costole sporgenti al di sotto della pelle, tante volte tutto questo era stato troppo difficile da sopportare. Avevo avvertito una sofferenza che non riuscivo a comprendere, e alla quale la bellezza celata al di sotto non era stata in grado di dare una motivazione.
E invece, Varanasi.
Il maestoso fiume Gange, pieno dell’acqua del monsone e della sua solenne sacralità e marrone dei rifiuti che ogni centro abitato sulle sue rive buttava al suo interno, bagnava i gath che con le lunghe scalinate che ci si tuffavano dentro, e con loro la gente. I ragazzi che con salti acrobatici ci facevano il bagno, gli uomini che immersi fino alla vita ne raccoglievano le acque con le mani per lavarsi il viso e la testa o per alzarle al cielo, le donne che ci lasciavano galleggiare piccoli lumini come offerte e che ne riempivano vasetti in metallo per portare un pezzo di santità nelle loro case.
Si leggeva nei loro occhi l’amore per quel luogo. Era il luogo dell’arrivo, per la gente indiana, la meta del pellegrinaggio che ogni Indù cercava di intraprendere almeno una volta nella vita, il posto in cui andare a morire proprio per terminare quel ciclo di rinascite che rendevano la morte una continua ripartenza, e raggiungere la fine della vita terrena, la liberazione. E no non si trattava di quelle chiacchere un pò fricchettone da corso di yoga e Buddha bowls a cui ero abituata a Milano, era la verità di un popolo così distante dall'ingenua superficialità del nostro essenziale consumismo, che viveva a porte aperte, a piedi nudi, con le tasche vuote ma l’anima piena.
Affrontava lunghi e difficilissimi viaggi per raggiungere il luogo in cui fermarsi, donarsi alla natura e lasciarla rifiorire, ignorando tutte quelle false necessità così imprescindibili per il mondo che conoscevo io perché l'imprescindibile, lì, era un'altra cosa.
Non dimenticavo la fame, la sofferenza, la povertà estrema. Non le sottovalutavo. Però capivo, finalmente, per la prima volta dopo quelle prime settimane, che cosa si celava sotto quella spessa crosta così dura da grattare via. Capivo il legame intrinseco degli indiani con la loro spiritualità, così intensa da eliminare tutte quelle infrastrutture che costituivano invece la vita che vivevo io. La vedevo nei loro occhi mai timidi, nei loro atteggiamenti aperti e sfrontati, la vedevo nella vivacità dei colori delle loro case dalle più umili a quelle sontuose, la vedevo nei monili con cui decoravano i loro corpi, nei piccoli templi nascosti dietro a ogni angolo, nelle cerimonie religiose e nei rituali in cui mi imbattevo camminando per la città, nelle vesti, nei turbanti, nei negozi e nei baracchini ai lati delle strade.
Non mi ero mai trovata così lontana da casa.
Stavo imparando ad osservare silenziosamente la vita sconosciuta che si svolgeva davanti a me e a lasciare da parte il mio giudizio.
Così passarono i miei giorni a Varanasi. Camminavo per le vie accarezzata dalle spalle della gente con cui mi scontravo, spostandomi con la schiena contro il muro non appena sentivo quella ormai familiare cantilena che annunciava l'arrivo di un corpo, coperto da sottili teli gialli e trasportato da coloro che scoprii poi essere gli Intoccabili. Carcavo di guardare da un'altra parte mentre passavano sotto il mio naso dirigendosi ai ghat crematori da cui si levava un fumo costante che mi faceva bruciare gli occhi.
Bevendo chai seduta su uno sgabello di plastica osservavo la pioggia scendere violenta sulla vita indaffarata che non si fermava, i venditori ambulanti carichi di cibarie che si spostavano per far passare le lente mucche che si dirigevano a curiosare nei mucchi di spazzatura fradicia alla ricerca di qualcosa da mangiare, i bambini che a piedi nudi giocavano nei canali di scolo con caprette e cuccioli di cane.
E infine, il tempo passato sul tetto della meravigliosa Shanti Guest House che ci aveva ospitate finalmente dal nostro secondo giorno a Varanasi, un'alta terrazza sul cuore della città e sul Gange, che stavo a guardare appoggiata al parapetto di legno durante le lunghe colazioni, i lenti pomeriggi e le serene serate passate a bere Kingfisher, mangiare chapati, chiacchierare con altri viaggiatori e osservare i camerieri indiani che con abilità scacciavano le scimmie arrampicate sulle balaustre, spaventandole con buffi ruggiti, salti e espressioni minacciose, mentre il sole scendeva sui tetti della città e le luci di centinaia di lumini decoravano le acque più sporche, più sacre e più solenni che mi era mai capitato di incontrare.
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