Scivolo giù dai pendii di Darjeeling ricoperti di verdissime piante da tè, bambini e donne incurvate a metà che ne riempiono le loro bisacce, le nuvole pian piano si diradano fino a far vedere il cielo e l’aria da fresca torna a caricarsi di umidità e calore.
A di fianco a me dorme ondeggiando la testa inconsapevole delle curve turbinose in quella strada senza alcuna protezione dai precipizi altissimi.
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Traballo nell’ultima fila del bus che da Siliguri ci trasporta verso il confine col Nepal. Sporgo la testa fuori dal finestrino per respirare un po’ d’aria fresca e incontro con lo sguardo la bambina dalla testa rasata seduta nelle file davanti a me: fa parte di una famiglia malridotta, la madre al suo fianco avvolta in un sari di un fucsia acceso e poi un piccolo bambino ricoperto da pustole. Sono preoccupata. Il pullman è gremito di persone e venditori di collane di fiori, d’un tratto la ragazzina pelata vomita sporta davanti a me. Chiudo il finestrino.
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Il grosso zaino mi pesa sulle spalle mentre attraverso il ponte sul fiume Mechi, dietro di me il guidatore di risciò si concede un attimo di riposo all’ombra di un alberello fuori dall’isolato ufficetto di frontiera che ha timbrato i nostri passaporti, in attesa del prossimo viaggiatore che passato il confine a piedi nel senso opposto al nostro, abbia bisogno di un passaggio alla bus station indiana.
Alla fine del ponte, sul suolo nepalese, un gruppetto di guidatori cerca di attirare l’attenzione mia e di A per aggiudicarsi la pedalata fino alla vicinissima Kakarbhitta, la prima cittadina dopo il confine con l’India.
Abbiamo percorso solo un’ottantina di chilometri da Darjeeling a qui, ma in perfetto stile indiano ci abbiamo messo tutta la giornata. Il night bus per Kathmandu parte alle 20 e dobbiamo sbrigarci, mancano solo 20 minuti.
Arrivate alla piazzetta principale di Kakarbhitta - da noi poi soprannominata Kakkamerda - veniamo subito avvicinate da un venditore di biglietti che ci porta alla sua agenzia per prenotare i nostri posti sul bus.
Sono circa le 22. A è seduta di fronte a me e analizza le maleodoranti erbette che accompagnano il riso nel piatto di rame che ci ha portato la cameriera quando a gesti le abbiamo fatto capire che volevamo mangiare. Io succhio dalla cannuccia la dolce Seven Up che ho deciso essere la mia cena. C’è una differenza di fuso orario di 15 minuti tra l’India e il Nepal, esattamente i 15 minuti che abbiamo passato in quell’agenzia mentre l’ultimo autobus per Kathmandu partiva dalla piazzetta principale, a pochi metri da noi. Il venditore ci ha provato, a fregarci, e in effetti c’è riuscito. Dopo aver quindi finto di interessarsi alle nostre lamentele e averci proposto di passare la notte in diverse bettole della cittadina, in attesa di partire all’alba con il prossimo bus, e dopo averci anche mostrato il bus sotto nostra insistenza portandoci al parcheggio con un improbabile viaggio in 3 sul suo motorino, ci ha consigliato di mangiare qualcosa probabilmente maledicendo dentro di sè il momento in cui si era incastrato con queste due rompipalle occidentali. Decidiamo di cedere e di accettare di dormire in una di quelle bettole, rinunciando alla stupida idea di stabilirci tutta la notte nella sua agenzia come segno di protesta.
Finita la cena ci dirigiamo quindi all’albergo, una bassa costruzione di cemento all’estremità della minuscola cittadina, avvolta dai campi incolti e dall’oscurità. Alla stanza si accede da un corridoio chiuso alle estremità da delle sbarre e dei lucchetti.
Siamo al piano terra, la finestra è rotta e dal buco entrano l’aria e i rumori della sterpaglia che ci circonda.
I letto sono panche di legno sulle quali sono distese delle ruvide coperte.
Il bagno, un buco nel pavimento.
Kakkamerda.
Neanche a dirlo, l’autobus dell’alba non esiste. Il nostro autoproclamato agente di viaggio ci parla di uno sciopero ovviamente falso e ci assicura due posti sul bus vero, quello della sera che abbiamo perso il giorno precedente. Passiamo la giornata ad aggirarci per Kakkamerda, assonnate dopo la notte in bianco a mangiare crackers, a raccontarci storie e a ridere nervosamente dell’assurda situazione in cui ci trovavamo.
Vediamo il paese risvegliarsi, le porte delle case aprirsi sulle strette strade, gli uomini farsi la barba in scodelle di metallo su sgabelli appoggiati ai muri, sorseggiare il chai, le donne dirigersi al tempio coi loro sari brillanti e i lucidi capelli neri legati all’indietro.
Il pullman, infine, ci sarà.
Non abbiamo mai capito il vero scopo di questa truffa. Forse farci pagare una notte in albergo, forse assicurarsi due clienti per la corsa del giorno seguente? Forse non ci siamo soltanto mai capiti. Ma per A e me, quello è stato il nostro ingresso in Nepal: la nostra città meno preferita, e l’infinito viaggio verso Kathmandu, raggiunta stremate 40 ore dopo aver attraversato il confine, dopo la corsa in autobus peggiore della nostra vita. Peggio di quella da Calcutta? Si.
Il Nepal è stato il luogo dei templi, dell’armonia, della natura. La scenografica Kathmandu, racchiusa in una valle incorniciata dalla catena dell’Himalaya, così turistica e alternativa dopo il primo scioccante impatto indiano, i romantici ristorantini sulle terrazze nelle strette vie del centro, i deliziosi momo tibetani ad ogni pasto, le infinite faticose scalinate per raggiungere i templi maestosi.
La poetica Pokhara con la sua alba sull‘Annapurna, le verdi sponde del lago Phewa a un passo dalla natura incontaminata, le passeggiate nell’aria fresca della sera tra i ristorantini dì Lakeside, gli spaventosi insetti da cui A coraggiosamente più volte ci ha salvate. L‘incredulo stupore di Lumbini, l’incantevole, i templi sparsi nell’immenso parco che circonda il luogo di nascita di Buddha, le silenziose passeggiate nell’area monastica, la sensazione di trovarsi al di fuori dal mondo.
Non ci eravamo ancora abituate all’impressionante impatto dell’India quando ci siamo un immerse nel pacifico Nepal.
L’abbiamo lasciato ricche della necessità, prima o poi, di ritornare.
Dal sogno di Lumbini, poi, dopo una settimana tra le nuvole, con un driver abbiamo riattraversato il confine e siamo approdate a Gorakhpur. Pronte (pronte?) per la nostra terza parte di avventura indiana.
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