L’ho scritto, l’ho cancellato.
L‘ho riscritto e modificato.
L’ho iniziato a penna, l’ho continuato sulle note, l’ho rielaborato in una registrazione vocale, e poi ancora ho cancellato tutto.
Non riuscivo a capire perché la storia che tanto aspettavo di raccontare, di un viaggio avventuroso e pazzo, sul quale ricevo tanta attenzione e domande quando ne parlo alle persone, non mi riusciva proprio di scriverla come volevo io.
Sono passati i giorni, le settimane, e ora che sono diventati mesi forse ho capito: non è il momento.
Non c’è spazio ora, nella mia mente, nel mio cuore, per rivivere le emozioni del mese passato in India e Nepal con la mia amica A, nell’ormai remoto 2011.
Quella è una bella storia che ha bisogno di tempo e dedizione per essere raccontata, e oggi il mio tempo e la mia dedizione sono occupati da altre faccende.
Faccende che occupano la testa di tutti, che hanno acceso un lieve preoccupato interesse quando è iniziato l’anno che stiamo vivendo, che dopo poco meno di due mesi si sono avvicinate precipitosamente trasformando la lieve preoccupazione in un allarmato cruccio, in un’attenta paranoia, in una vera paura.
Una pandemia.
Sono nata negli anni ‘80, non avevo nemmeno un anno quando avvenne il disastro di Chernobyl e ne stavo per compiere 4 quando con la sua caduta il muro di Berlino mise fine a quella Guerra Fredda che ancora creava un legame con il secolo delle Guerre Mondiali. I racconti di questi eventi non rappresentano parte della mia vita, ma la storia passata che si studia a scuola.
Ero una quindicenne disinteressata e ribelle che bloccata in aeroporto e ignara di tutto tentava di tornare in Italia dopo due settimane fallimentari in una scuola inglese, quando le Torri Gemelle cadevano rendendo quel mio sicuro e privilegiato mondo occidentale d’un tratto vagamente più fragile e vulnerabile.
Quello che so dell’Afghanistan, di Al-Qaida, degli attacchi terroristici e delle crisi mediorientali l’ho visto nei documentari, l’ho letto su internet durante quelle notti insonni, quelle pigre ore di studio o lavoro in cui non hai voglia di studiare o lavorare, quei momenti di nulla da fare in cui la noia e la curiosità ti portano a indagare. Non ha veramente sconvolto in modo diretto la mia vita.
Sono storie forti che mi hanno colpita, ma sono storie.
Storie lontane.
Questa vicina vita privilegiata non mi ha preparata a ciò che accade, tutto d’un tratto, nel mio mondo.
Non conoscevo, fino a ieri, l’incertezza del futuro.
Non pensavo fosse possibile non poter tornare a casa.
Non credevo di poter esser fermata e interrogata per strada dalla polizia mentre butto la spazzatura.
Non mi sarei mai immaginata di arrivare fuori da un piccolo supermercato e dover fare la coda per entrare, per comprare delle verdure, per comprare il pane.
Non avrei mai previsto di sviluppare la paura degli altri, di non poter stringere la mano a una persona, di dover fermare mio figlio quando volesse avvicinarsi a toccare un bambino o a giocare con lui.
Non pensavo di poter vedere i programmi televisivi d’un tratto senza pubblico, e di vedere il quiz serale di Gerry Scotti sostituito da una conferenza stampa giornaliera che conta il numero dei contagi, dei morti, dei guariti.
Nemmeno in uno dei miei incubi più brutti avrei creduto di vedere mio padre, il mio papà grande grosso sano e forte, avere una febbre che di giorno in giorno diventasse più forte, e che invece che sminuire come sempre faccio, mentre per telefono sentivo la sua voce indebolirsi, salisse in me insieme alla sua febbre una insolita, brutta preoccupazione. Che dopo 10 lunghi giorni, invece che esser già guarito, venisse portato in ospedale e che da lì, ora dopo ora, iniziasse un calvario di febbre alta, spaventosi caschi di ossigeno, incertezza, farmaci sperimentali, nessuna possibilità di comunicazione, snervanti attese davanti al telefono ad aspettare notizie sempre negative, paura dell’inaspettato, dello sconosciuto, della solitudine, paura di perderlo.
Quaranta sono i giorni passati da quando in Italia è iniziato il lockdown, e noi ci siamo isolati in montagna con due valigie, un libro che non riuscirò mai a finire, il computer per lavorare e tre giochi per M, che non sta più nei pochi vestiti che gli abbiamo portato.
Trentatre giorni sono passati da quando a mio papà è arrivata la febbre.
Ventitre giorni sono passati da quando è entrato in ospedale, e il mio cuore si è fermato.
Otto giorni fa ho potuto risentire la sua voce.
Da due giorni i dottori ci dicono che è migliorato, e il mio cuore è ripartito.
Da tempo ormai leggo di tanti modi in cui la gente si è ritrovata a passare questi quaranta giorni.
C’è chi ha studiato, chi ha scoperto nuove passioni, chi ne ha rispolverate di antiche. C’è chi si è dedicato agli altri, chi ha rinnovato un mestiere.
C’è chi ha sviluppato la sua creatività, c’è chi si è preso cura del suo corpo.
C’è chi si è rilassato, chi si è annoiato, chi è diventato matto per star dietro ai figli o agli animali o ai parenti o a se stesso.
C’è chi è stato molto male, e c’è chi ha avuto molta paura.
In questi quaranta giorni io ho imparato che le centrali che esplodono, i muri che cadono, gli aerei che si scontrano su alte torri, le guerre, gli attacchi terroristici, le persone che si ammalano non sono storia lontana.
Non sono racconti toccanti, non sono documentari o pagine di Wikipedia.
Sono cose che succedono alle persone.
Sono cose che succedono a me.
L’ho imparato nel modo più duro, lo sto imparando nel modo più dolce.
Non so perchè ho scritto questa storia, non so perché l’ho scritta qui. Ma chissà, magari ho liberato un po’ di spazio, e potrò finalmente scrivere di quel famoso viaggio in India e Nepal con A nel lontano 2011, che giuro è stato pazzesco.
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